SUI DIALETTI NEOLATINI ISTRIANI O ISTRIOTI

È ormai cosa nota che nella parte sud occidentale dell’Istria si sono conservati dei dialetti di tipo neolatino, oggetto di studio di molti glottologi a partire soprattutto dall’Ive (Antonio Ive, 1851-1937) in poi, definiti come istro-romanzi o istrioti o addirittura semplicemente dialetti istriani[1]. Di quali dialetti concretamente parliamo? In ordine alfabetico essi sono:  il Dignagnese, il Gallesanese, il Rovignese, il Sissanese e il Vallese.

Senza alcun dubbio, per tutta una storia che ben conosciamo, legata alla  secolare dominazione romana e bizantina, perpetuatasi per nove secoli (178 a.C – 800 d.C.),  escludendo la breve parentesi longobarda, e poi per altri undici secoli di legami progressivamente sempre più intensi e di sudditanza con la Repubblica di Venezia (900 d.C – 1797). Per tale motivo questo gruppo di dialetti, presenti ora solo in un piccolo territorio circoscritto dell'Istria, che hanno tratto origine direttamente dall’epoca della colonizzazione romana, data la somiglianza e congruenza con le lingue latina, italiana e veneziana, possiamo classificarli come neolatini. Cito il Crevatin: “La storia neolatina dell’Istria ha radici aquileiesi, come mostrano rapporti lessicali esclusivi tra Istria e Friuli (ad es. suliègno, nome rovignese del maggiociondolo, e salèn friulano, derivano da s a l ĭ g n u s / s a l ĭ g n e u s). Su questa rete di rapporti tradizionali si inseriscono nuovi comprimari: i Bizantini (ad es. rovignese maràsa, pettine di Venere, pianta delle Umbelliferae, deriva dal greco μăραθον “finocchio”), le genti Slave, i Longobardi (ad es. piovìna, aratro, e il toponimo Raspo, anticamente Ratchispurg)”.

L’Ive, agli inizi del XX secolo, li definì ladino – veneti dell’Istria, il Deanović, nel secondo dopoguerra, li chiamò istrioti, ma il Crevatin preferisce chiamarli semplicemente dialetti istriani perché sono gli unici veramente autoctoni poiché nati ed evolutisi nel territorio istriano. Va tenuto presente che comunque questi antichi dialetti dell’Istria sud-occidentale non devono venir confusi con la parlata istroveneta di più recente diffusione in tutto il territorio istriano.

Ovviamente anche le brevi e passeggere occupazioni del territorio da parte di altri popoli, quali i Longobardi e Franchi, e il progressivo insediamento delle genti Slave hanno lasciato la loro traccia anche in queste parlate. Ed è anche chiaro, tenendo presente quanto dice già Dante a proposito dei possibili mutamenti all’interno di una parlata[2], che pure nei nostri dialetti millenari più di qualche cosa sia cambiato nel corso del tempo, nella pronuncia, nel nominare i singoli oggetti e altro. Quello che oggi possiamo osservare sicuramente è che, a scanso della scontata origine comune in un territorio estremamente delimitato, si percepiscono delle evidenti diversità tra i cinque dialetti istriani, probabilmente dovute alla scarsa comunicazione tra i cinque centri urbani citati, anche se non molto distanti uno dall’altro, come pure per le diverse influenze esterne, dovute alle convivenze con gruppi di etnia e parlata diversa, sopraggiunti nel corso dei secoli, in particolare quella slava, ma non esclusiva, e insediatisi nel territorio, specie quello rurale.

LIBERO XTESTO

Per secoli tali parlate sono state tramandate solo oralmente, poiché erano d’uso comune nella comunicazione quotidiana. Solo in epoche recenti, a partire dalla metà del XIX secolo, cominciano ad apparire le prime opere scritte in dialetto. Parecchi sono gli autori che negli ultimi settant’anni, soprattutto, si sono adoperati al recupero lessicale, tra i quali vanno citati: i rovignesi Antonio Ive, Raimondo Devescovi, Antonio–Gian Giuricin, Antonio e Giovanni Pellizzer, Giovanni Malusà, Antonio Segariol, Antonio Benussi Moro, Giusto Curto, Giovanni Radossi, Antonio Pauletich, Vlado Benussi, Elia Benussi, Norino Benacchio, Gianclaudio de Angelini (rovignese a Roma); poi Sandro Cergna (Valle), Giovanni Andrea Dalla Zonca per mano di Miho Debeljuh (Dignano), Flavio Forlani (Dignano), Claudio Pericin (Pola), Goran Filipi e Barbara Bursic-Giudici (Pola), Roberto Starec (Trieste), Maria Balbi e Maria Moscarda Budić (Gallesano), Nelida Milani (Pola), Franco Crevatin (Trieste), Mirko Deanović (Zagabria). Pavao Tekavčić (Strasburgo-Zagabria), Enrico Rosamani (Trieste), Branimir Crljenko (Rovigno), ognuno con il proprio specifico contributo.

Certo, disporre di ricerche del tipo menzionato però non basta. Per ricercare i lemmi non catalogati, le frasi idiomatiche e le particolarità sintattiche, vanno anche consultati e analizzati i testi di quanti si sono cimentati a scrivere in dialetto: i nostri poeti, i nostri scrittori e i nostri musicisti, come pure gli interlocutori diretti. E ce ne sono molti. Sarebbe troppo lungo citare tutti quelli di Dignano, di Gallesano, di Rovigno, di Valle e di Sissano, che hanno scritto poesie, racconti più o meno brevi, bozzetti teatrali, canzoni, pezzi corali e anche operette, tutto in dialetto istriano (chiaramente neolatino o istrioto, come vogliamo chiamarli),  ognuno nel suo ovviamente.

E quando diciamo “ognuno nel suo”, qui la cosa comincia a farsi complicata. È vero, la matrice dei nostri dialetti è una sola, ma con il tempo si sono diversificati nei lemmi specifici, nella pronuncia, nell’ortografia e pure nella grammatica.

Nemmeno i poeti e gli scrittori, si sono sempre convenzionati con lo stesso modello ortografico, neanche all’interno dello stesso dialetto. A causa di questa mancata uniformità nella grafia dei testi, anche per gli autori che appartengono ad ogni singolo dialetto, non è sempre stato facile valutare ed effettuare le scelte, soprattutto nel caso dei tanti “sinonimi”, che talvolta sono dovuti a meri errori ortografici.

Per argomentare meglio quanto detto sinora voglio proporre degli esempi.

Prima però di passare all’analisi dei singoli lemmi (parole), sta bene segnalare alcuni problemi oggettivi da superare per poter fare un giusto confronto:

  1. Non tutti lemmi, e qui mi riferisco a nomi di piante di animali o di cose, sono stati catalogati nei vocabolari dei singoli dialetti pubblicati sinora.
  2. Il problema della grafia, e quindi della giusta pronuncia correlata, non è stato risolto definitivamente.
  3. La mancanza di testi in dialetto è un grosso problema. Solo Rovigno possiede un bagaglio di più di 5000 pagine pubblicate e molti manoscritti ancora inediti, nonché un centinaio di canzoni d’autore in dialetto, senza contare il quasi migliaio di pagine di saggi dedicati ai temi dialettali. Gli altri dialetti in questo contesto sono molto più poveri e ciò crea non poca difficoltà nel reperire i lemmi mancanti per colmare le lacune.
  4. Mancanza di interlocutori-buoni conoscitori del dialetto- in ogni Comunità citata (e in futuro ce ne saranno sempre di meno).

Per fare una analisi seria viene quindi a mancare un solido punto di riferimento o sostrato attendibile.

Analizziamo comunque quanto di comune e quanto di diverso ci sia nei nostri dialetti comparando alcuni lemmi specifici, e per alcuni lemmi sta bene considerare anche l’etimologia, cioè da che lingua essi provengono.

Molti sono gli appellativi che hanno conservato fino ad oggi la loro radice, più o meno mutata, romana o greca o di altra lingua. Questo è il campo del prof. Crevatin dai quali lavori ho tratto gli esempi.

Esempi analizzati: (D. = dignagnese; G. = gallesanese; R.= rovignese; S. = sissanese e V. = vallese)

1.  Parole con radice romana o greca o di altra lingua

●  “corbezzolo”, il rovignese gombro m.: è il continuatore dell’adattamento latino comărus del greco κόμαρος. La parola è attestata in latino solo come citazione (Plinio, Nat. Hist. 15, 99), ma in Istria si è continuata direttamente e ciò significa che era parte del latino parlato localmente.

●  marasa “un’ombrellifera, Pettine di Venere (Scandix pecten Veneris L.)” deriva da  < μăραθον “finocchio”,

●  suliègno (R.) “maggiociondolo” < salĭgneus “salcigno”, friulano solèn e sim.

●  inpingheî v.tr.(R.) “infangare; sporcare”, da un *impilĭcāre < greco πηλός “fango; creta”.

●  la robinia, gaseîa (R.) < άκακία e non da acacĭa. (ma anche càsia R.,G. e V.)

●  la piovina < plovum, latinizzazione dell’equivalente parola germanica (cfr. ad es. tedesco Pflug).

● la tettoia o riparo tagùr (R.) o tigor (D.) < dal lat. tugūrium

● sordo gluco (V.)  < dal croato gluh

● scorfano nero scarpèna spalmaruòta →b scarpoc’ < dal dalmato skarpoč

● vino dalmato upànco (R.) < dal dalmato opanka (scarpe che indossavano i dalmati che venivano a vendere il vino a Rovigno)

●  severo, tremendo tartàife (R.)  < dal tedesco teufel (diavolo)

  • ò

2. Esempi di vocaboli simili ma con significato uguale:

● Vino – vein e vin (G. e V.), vèin (D.), veîn (R. che Zanini scrive véin, ma che si legge con la semivocale)

● Sorbo – sorbolèr (G.), surbièr (R.), sorbo (V.) dal lat. sorbus

  • òa

● Recipiente di legno – mochèra e mocaròla (G.), mocaròl (D.), mulchièra (R.) dal lat. mŭlgāria → mŭlcāria

 3. Esempi di vocaboli diversi e con significato uguale

  • òbronbolèr

● Sordo – gluco (V.), surdo (R.), sordo (G.)

● Cimitero – savadòr, salvadòr (V.), simitèrio (R.) (D.e G. non trovati nei voc.)   dal  lat. sĕpĕlitōrium. / lat. cĕmĕtērium gr. koimetèrion, dormitorio.

● Finocchio selvatico: maràsa (G.), maràsa e fenòcio (D.), fanuòcio (R.), maràsa (V.) Precisazione: Come evidenziato più sopre, il Pettine di venere (Scandix pecten-veneris L.) – maràsa (R.), dal greco μăραθον “finocchio”,  

● Ciliegio canino (Prunus mahaleb L.) – spuso (G.), spin de can (V.), speîn da can (R.).

● Terebinto (Pistacia terebintus L) – spoûso (R.), vàrno màto (V.) 

● Ailanto (Ailanthus glandulosa Desf.) – liànto (G.), spoûso miricàn (R.)

● Biancospino comune (Cratageus monogyna) – peràtolo (V.), biancospeîn, galuòpo bianco (R.)

● aratro vergàl (G.), vergagno (V.), manculeîn (R.), (Dign. non trovato)

lat. vergĕre

● Attrezzo per pulire l’aratro arlàr (D.), mandrèsa (G.), stunbièl (R.) (vallese non trovato)

  • òèrnoòèrno

lat. pĭstrīnum – mulino a mano

Considerando la sola grafia dei nostri dialetti non si percepisce appieno  quale e quanta sia la loro diversità o eventualmente quanto siano invece simili. Per avere un’idea precisa bisogna anche considerare la sia la parte ortografica, sia la sintassi e la pronuncia. In questo esposto ho usato i simboli grafici del dialetto di Rovigno poiché altrimenti il confronto tra i singoli lemmi dialettali sarebbe stato ancora più complicato. Un esposto esauriente di ortografia del dialetto di Rovigno la si può trovare in BENUSSI, Libero, Vocabolario italiano-rovignese e Appendice del vocabolario di Rovigno d’Istria 1992-2013, Comunità degli Italiani di Rovigno, 2013 e BENUSSI, Libero, Grammatica del dialetto di Rovigno d’Istria, Comunità degli Italiani di Rovigno, 2015.

PS. Sarò estremamente grato a tutti coloro che vorranno contribuire per completare e ampliare questo esposto pregandovi di contattarmi possibilmente.

19 settembre 2016                                                 Libero Benussi


[1] È ormai cosa nota che nella parte sud occidentale dell’Istria si siano conservati dei dialetti di tipo neolatino, oggetto di studio di molti glottologi a partire dall’Ive (Antonio Ive, 1851-1937) in poi.

[2] Dice Dante nel Convivio:

Capitolo V. 8. “Onde vedemo ne le scritture antiche de le comedie e tragedie latine, che non si possono transmutare, quello medesimo che oggi avemo; che non avviene del volgare, lo quale a piacimento artificiato si transmuta. 9.”Vedemo ne le citadi d'Italia, se bene volemo agguardare, da cinquanta anni in qua molti vocaboli essere spenti e nati e variati: onde se il picciolo tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore.“ „Sì ch’io dico, che se coloro che partiron d’esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante.

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